Dalla Rivista PESCARE – Dicembre 1972
"Esperienze di un neo pescatore a mosca"
Avevamo
iniziato a pescare a mosca insieme, grazie ad alcuni amici che si erano
presi la briga di starci un po’ alle costole e adesso ci sentivamo
pronti ad affrontare “la prima spedizione importante” con questa
tecnica che ci aveva fatto dimenticare cucchiaini, bachi e ogni altro
genere di esca. Ora infatti la coda di topo scivolava via dritta e
veloce rubandosi le sue spire e non ciondolando come nei primi tempi,
mentre la mosca riusciva ad adagiarsi sull’acqua. Insomma, lo ciaff!
non era più una consuetudine, ma soltanto una distrazione isolata.
Alle una di notte lasciavamo le
ultime case della città puntando verso sud. Sapevamo che quello era il
mese meno favorevole per andare a trote, ma le ferie erano quelle e non
potevamo certo rinunciare solo perché era agosto! La lancetta del
contachilometri si era stabilizzata sui cento e alle sei attraversavamo
Cassino.
Adesso la strada saliva dolcemente e
alla nostra destra, nella valle scorrevano serpeggiando le acque del
Volturno. A stento riuscimmo a resistere a quel richiamo e
continuammo verso Castel di Sangro. Ora la strada scendeva e davanti a
noi si perdeva lontana una veduta di colline e aspri poggi rocciosi. Ci
venne incontro un cartello con la scritta Alfedena: sapevamo che il
Sangro doveva essere là vicino e, visto un ponticello su una stradetta
secondaria andammo a dare un’occhiata. Sotto al ponte, indolente nel
suo alveo, scorreva solo un rigagnolo di acqua cristallina. Se quello
era il Sangro avevamo avuto una bella fregatura! Mentre eravamo
lì incerti in mezzo alla stradina bianca di polvere vedemmo avanzare un
vecchio a cavalcioni di uno smunto asino ondeggiante. “Scusi” gli
domandai quando ci passò vicino “è questo il Sangro?” Un’occhiataccia
da sotto il berretto sgualcito e un cupo brontolio ci fecero capire che
quel rigagnoletto era proprio il nostro paradiso di trote.
Proseguimmo delusi verso Castel di
Sangro e nel pomeriggio continuammo la ricerca verso valle. Cartina
alla mano proseguimmo verso Ateleta e a un tratto, uscendo da una
curva, ci apparve in basso il vero Sangro. Era laggiù, calmo e
tranquillo, seminascosto da una intricata boscaglia di giunchi tanto
che lo potevamo vedere solo quando i suoi meandri tagliavano la valle
trasversalmente.
Freneticamente infilammo gli stivali,
agguantammo canna e cestino e giù, a lunghi passi verso il fiume. Chino
sotto la folta barriera di giunchi avanzavo in fretta mentre la camicia
e le maglie del guadino si aggrappavano ai rovi o la canna si
intricava nella ramaglia mettendo a dura prova la mia pazienza già
compromessa dall’ansia di arrivare al fiume.
Sudando, incespicando e riparandoci
dagli schiaffi dei giunchi spostati dal nostro avanzare, girammo e
rigirammo cercando un passaggio chini sotto quella selva. Fermandoci di
tanto in tanto trattenevamo il fiato per sentire la voce dell’acqua che
fungeva da richiamo.
Finalmente ci trovammo faccia a
faccia con il fiume. Non avevo mai visto acque simili e compresi perché
tutti ci avevano parlato del Sangro come il non plus ultra della
pesca a mosca. Infossato fra i cespugli scorreva allegro, ora
allargandosi, ora restringendosi a seconda dei capricci del suo letto.
Le sponde si nascondevano nei giunchi e l’acqua ci si infilava sotto
come se cercasse un’ombra ristoratrice. Era un continuo scorrere e
brillare di correntine in leggeri pendii ciottolosi. Il fondo,
quasi uniforme, degradava poco a poco mentre l’acqua di tanto in tanto
colmava buche più profonde e tranquille. E un silenzio inconsueto!
Tutto questo però non lo notai subito
perché dopo la prima occhiata ero già intento a montare la canna mentre
le mani mi tremavano di eccitazione.
Stavo ancora armeggiando intorno
alla mosca quando Roberto, con un ghigno che sapeva di sfida,
entrò in acqua svettando la canna e stendendo la sua coda di topo. Mi
aveva battuto sull’anticipo. E pensare che mi ero anche fermato a
dargli una mano quando si era infilato in quella macchia di rovi
e annaspava come un uccelletto implume per uscirne!
I primi lanci furono un vero
disastro. Ogni lancio era uno schiaffo sull’acqua tanto che Roberto,
con quel suo risolino di chi la sa lunga, mi vociò: “Che le prendi a
botte?” Strinsi i denti e tacqui.
Quando mi fui calmato cominciai a
pescare più decentemente. La canna rispondeva bene e la coda fendeva
veloce l’aria per poi stendersi e posarsi lieve sull’acqua. Lanciavo la
mosca dalla parte opposta, dove la corrente si infilava sotto l’ombra
delle giuncate e dove certamente erano le trote in caccia. La vedevo
posarsi leggera, indugiare un istante e poi iniziare la sua corsa
insieme allo scorrere dell’acqua. Per più di un’ora il fiume sembrò
addormentato sotto il solleone. Poi a un tratto, dove l’acqua sostava
in un largo girotondo, sentii uno “splash” e intravidi un guizzo
argenteo rotolare in superficie e saettare sul fondo. Lanciai la mosca
poco a monte della mia prima bollata. Una posa perfetta. Poi scese
verso il punto dello “splash”, lo superò e proseguì la sua corsa finchè
non dragò alla mia destra. Provai di nuovo e poi ancora. Niente.
Pescavamo entrambi con la bivisible di Walter, la stessa che ci aveva
concesso egregi cestini di cavedani e trote e nella quale ponevamo la
massima fiducia, ma che questa volta non era riuscita a snidare la mia
trota.
Come per incanto dopo quella bollata,
il fiume fu tutto uno sciaguattio e un risuonare di codate sorde alla
superficie tanto da far pensare che le trote si fossero passate la
voce. Eppure non vedevamo nessuna schiusa di insetti.
Il sole era ora molto basso quando la
vidi saltare sulla mosca che ancora non si era posata sull’acqua. Sulla
ferrata la canna si piegò in avanti. Era circa di misura: la restituii
all’acqua e la vidi saettare via veloce.
Roberto mi fischiò lontano
gesticolando: imitava così bene il lancio, la bollata, la ferrata, il
recupero, la taglia e il gesto di rimettere in acqua una trotella
che compresi quello che voleva dirmi.
Il fiume continuava a risuonare di
bollate, ma i nostri lanci, i più morbidi e leggeri, non riuscivano a
ingannare le trote. Ferrammo solo qualche altra trotella, ma le grosse
si limitavano a bollare disdegnando la nostra mosca. Provai invano
tutto l’assortimento della mia scatola. Evidentemente le trote stavano
bollando sotto il pelo dell’acqua e avremmo dovuto pescare sommerso.
Montai qualche spider, ma pescare così non mi piaceva per cui tornai
alla mosca di Walter.
Adesso pescavamo in corsa con il sole
e mentre questo tramontava arrivai a una correntina che tagliando tutto
l’alveo andava a infrangersi contro una sponda alta e rocciosa per poi
infilarsi sotto a un cespuglio proteso sull’acqua e quindi proseguire
verso valle.
Lì, dove l’acqua sostava un po’,
accadeva qualcosa di strabiliante. Era come se tutte le trote del fiume
si fossero radunate in quel punto per inscenare un carosello di salti,
schizzi, bollate e scodate. Saltavano contemporaneamente due, tre,
urtandosi, e sconvolgendo la superficie dell’acqua. Lanciai la mosca
molte volte; ci provò e riprovò anche Roberto:niente. E non vedevamo
volare nemmeno una zanzarina. Nemmeno una di quelle trote si degnò di
prendere in considerazione il lungo menù di mosche che passò loro sul
naso continuando indifferenti a sciaguattare.
A buio tornammo stanchi alla macchina. Il ghigno sornione di Roberto era ora solo una muta smorfia amara.
A cena provammo a risolvere
quell’enigma e le soluzioni sembravano essere il verme, il cucchiaino o
la mosca sommersa, ma noi ci eravamo prefissi di pescare solo con la
secca.
La mattina dopo riprendemmo quindi le
nostre canne e risalimmo il fiume da Alfedena. Vedemmo un tale in
mutande che, lontano, frugava il fondo: era evidentemente un
bracconiere perché sembrò averci fiutati e lo vedemmo sparire nella
vegetazione. Proseguimmo per un bel pezzo verso la diga di Barrea che
sbarrava a monte il corso del torrente. Pescavamo in una stretta gola
in acqua prettamente torrentizia, ma prendemmo solo trotelle.
A cena, dopo la seconda giornata in bianco decidemmo per l’indomani di provare il Volturno.
Era più largo del Sangro e scorreva
fra larghi ghiareti. La corrente non era forte e anche qui la
vegetazione delle rive si protendeva sull’acqua. Pescammo per un paio
d’ore provando ancora tutte le mosche: di nuovo zero assoluto. Mentre
lanciavo ormai svogliatamente, per caso girai lo sguardo verso Roberto
e sotto le frasche vidi l’acqua rompersi in cento schizzi mentre la sua
coda di topo si tendeva e la canna si piegava. Agguantai la macchina
fotografica e mi detti da fare mentre Roberto finalmente si beava di
quella iridea che aveva allamato. Vidi il filo teso verso valle, poi un
paio di spanciate e di nuovo la lenza correre verso monte mentre
Roberto si affannava a recuperare con larghe bracciate la coda di topo
per non perdere il contatto. Poco per volta, tira e molla, la trota
finì dibattendosi energica fra le maglie del guadino. Era davvero una
bella trota. Mi avvicinai a Roberto mentre la slamava: gli tremavano le
mani.
L’ultima ora di luce volò e chiudemmo
la terza giornata con quella sola trota. La regalammo al vecchio della
bottega dove cenammo con salame, formaggio e…vino.
Più tardi, dalla chiacchiera di
Roberto Pragliola, avrei dovuto risentire, ancora, la descrizione
minuziosa di quella cattura mentre con vigorose manate tormentava
l’equilibrio del suo cappello.