Dalla Rivista PESCARE - Gennaio 1978
"A est dei monti Tatra"
Quando
finalmente arrivammo sull’Orava, nella zona indicataci dai
pescatori di Zilina dove avevamo avuto i permessi di pesca insieme alle
indicazioni sull’itinerario che ci veniva consigliato, la delusione non
fu poca. Dai depliant di pesca della Cecoslovacchia ci eravamo
costruiti l’immagine di ambienti di sogno mentre adesso il fiume
scorreva sotto il fumo nauseabondo di uno scarico di immondizia che
lontano, verso l’interno, covava chioccio il suo fuoco e una colonna di
fumo nero di una enorme fonderia che sulla riva opposta, incessante
diffondeva i suoi suoni ora striduli, ora tuonanti. Eravamo
letteralmente fra due fuochi.
L’Orava scorreva tranquilla in basse correntine, ora più lente e
piatte, ora più veloci e ondulate e…grossi temoli salivano alla
superficie lasciando i tipici cerchi concentrici che si
spostavano sulla corrente per poi svanire.
Dopo una galoppata di 1200 chilometri che da Firenze, per il Tarvisio,
ci aveva portato alla periferia di Vienna per poi proseguire attraverso
Bratislava e poi ancora su a nord-est verso Zilina, stanchi di quasi
due giorni di macchina, avremmo desiderato un ambiente più selvaggio di
quello.
A monte ci bloccava la zona di ripopolamento, più a valle il fatto che
il fiume passasse fra gli argini di una cittadina. Ma i temoli
bollavano per cui ansiosi riscendemmo il corso del fiume
attraversandolo al primo ponte e risalendolo andammo a montare il campo
sulla riva opposta poco a valle della fonderia ai margini di un
verdissimo pendio a fieno.
Mentre Gianni e io montavamo la canadese, quelli del pulmino facevano
bollire l’acqua per gli spaghetti e preparavano il fuoco. A cena
ingiubbottati per il freddo, si fece il punto della situazione: si
erano notati diversi tipi di sedge per cui avremmo dovuto costruircene
una buona scorta.
Dopo diversi giri di “rosso” e poi, intorno al fuoco, di wisky, portati
appositamente, la situazione ci sembrava decisamente rosea. Paolo
imbracciò la fisarmonica e ne vennero fuori i motivi di casa. Sulla
riva di là ovattati nel buio continuavano i rumori della fonderia,
occhieggiando fra le nuvole la luna sembrava ridesse di noi.
1° giorno
Appena mettemmo fuori la testa dalla tenda, nell’umidità fredda del
mattino, la prima occhiata naturalmente fu per il fiume. Tutti fummo
subito ben svegli. Al posto delle tranquille correntine scendeva a
valle una valanga d’acqua impetuosa, effetto di chissà quale
stramaledettissima diga.
Il livello era più alto di 60-70 centimetri di acqua che prendendo di
infilata i 50 metri di alveo piatto rendeva impossibile pescare. Di
bollate nemmeno a parlarne.
Poiché comunque continuavano a svolazzare innumerevoli sedge,
mentre Piero e Gianni partivano per le provviste ci mettemmo di lena a
costruire sedge per tutti.
Fu allora che silenzioso si avvicinò un pescatore del posto che
risalendo il fiume aveva l’aria di non avere nessuna fretta.
Incuriosito da tutta l’attrezzatura che avevamo sparpagliato intorno fu
attratto in maniera evidente dal materiale da costruzione. Dopo la
prima iniziale ritrosia la curiosità ebbe il sopravvento e si mise con
noi a occhieggiare nelle scatole. Lo scambio di sigarette suggellò una
istintiva amicizia, come succede spesso fra pescatori, anche se non ci
si capiva un accidente. Desiderava i nostri ami, era evidente: li ebbe.
Aveva una canna in fibra intorno agli 8’, una coda marrone, forse
affondante, un finale a nodi di circa due metri e mezzo e due mosche
fatte in casa: una olive e una specie di wickam’s fancy. Le altre
mosche della sua scatola, anche se non perfettamente costruite,
beninteso secondo quella che è la nostra concezione, ricalcavano i
modelli classici con una netta supremazia di mosche semisommerse che
avevano tutta l’aria di funzionare . Volle vedere le nostre mosche che
a gesti approvò entusiasta come pure approvò le sedge che avevamo
appena costruito.
Sempre a gesti, parlando ognuno per i cavoli suoi, ci fece capire che
verso le 10 il livello dell’Orava sarebbe tornato normale per poi
rialzarsi fra le 16 e le 18. Grossi temoli avrebbero bollato e stendeva
il braccio in avanti facendo la misura all’altezza del gomito e anche
più su. Poi indicando la curva che il fiume faceva a monte ammiccò
sornione e si incamminò con Vieri scomparendo fra la vegetazione lungo
il fiume.
Il livello del fiume in effetti, anche se lentamente, si stava
abbassando per cui terminata “la vestizione” mi incamminai anch’io
verso monte lungo la ferrovia. Il sole usciva a intermittenza dalle
nuvole cariche, la fonderia non dava tutto sommato troppo fastidio e
comunque il fumo si incolonnava alto nel cielo. Dopo tutto non era così
male come era sembrato: avevo voglia di pescare.
Trovai Alberto che in wading da metà fiume lanciava verso la riva
opposta dove il fondale aumentava. Aveva già preso un bel temolo e
vicino l’amico pescatore che senza lanciare osservava.
Entrai in acqua addentrandomi fino a metà del fiume e poi ridiscesi
lentamente in favore di corrente sbirciando il sottoriva dove l’acqua
spumeggiava appena su una piccola rapida. Nemmeno una bollata. Feci
alcuni lanci pescando l’acqua: niente. Allora mi fermai lì, in mezzo al
fiume, in attesa: la correntina era bellissima. Adesso eravamo tutti in
pesca.
A valle Gianni e Piero stavano risalendo lanciando e a tratti dal
silenzio li sentivo commentare le bollate, il lancio, la mosca…i
temoli. A monte, lontano, le cose sembravano andare altrettanto bene.
Vicino ad Alberto si erano aggiunti in fila gli altri tre lanciando
tutti nella stessa buca dalla corrente più liscia. Ogni tanto una canna
scattava in tensione. Davanti a me non vedevo bollare niente.
Iniziarono a passare varie schiuse di sedge, poi di olive e finalmente
i temoli cominciarono a bollare… Passarono tremule sull’acqua anche
alcune mosche di maggio, ma furono quasi ignorate. Le sedge che avevamo
fatto funzionavano egregiamente.
All’ora della spaghettata eravamo soddisfatti. Essendo tre pesci il
limite di cattura giornaliero avevamo in tutti pochissimi esemplari per
la griglia.
Nel pomeriggio decisi di andare a valle del campo e mentre la
maggioranza tornava nei luoghi della mattinata, solo iniziai a
discendere l’Orava. In un punto dove il letto piano del fiume, sotto la
riva sinistra, si avvallava un po’ facendo una buca di una cinquantina
di metri, temoli e cavedani bollavano a ritmo frenetico. Scesi in
acqua a valle della “zona calda”, mi spostai verso il centro del fiume
a valle e iniziai a pescare di traverso lanciando a monte. La sedge
funzionava ancora e subito presi un bellissimo temolo. Poi la
superficie si picchiettò di tremuli punti gialli che sparivano sotto
l’assalto frenetico dei pesci: era una schiusa di eptagenea sulfurea
che non avevo mai viste. Mi fosse venuto un colpo se avevo una
mosca gialla! Rovistai in tutte le scatole e pur avendo mosche chiare
in tutte le tonalità, di gialle zero! Continuali allora a provare
alcuni modelli fra i più possibili barando col pesce, lanciandogli le
mosche ora quasi addosso, ora a monte sul filo di corrente che avrebbe
portato la mosca precisa sulla bollata appena vista. Catturai
così alcuni cavedani enormi e diversi temoli.
Piero nel frattempo mi aveva raggiunto, si era piazzato a monte in
mezzo al fiume a una trentina di metri da me e partecipava alla festa,
ma anche lui niente mosca gialla! Gianni, scendendo, attraversò il
fiume e a sua volta si piazzò a monte di Piero.
Alzando gli occhi dall’ennesima mosca che avevo cambiato
improvvisamente ebbi la percezione di qualcosa di strano: i pesci non
bollavano più. Spostando lo sguardo a monte vidi avanzare sull’acqua
una larga macchia di schiuma minuta. “La diga!” gridò Piero e tutti e
tre scattammo rapidi verso la riva. Quando ero già in zona sicurezza
controllai gli altri. Piero che aveva fatto “il pieno” avanzava a
fatica, l’acqua sotto le ascelle, mentre più a monte, traballando,
Gianni sembrava in difficoltà. Benché zuppo anche Piero toccò riva
mentre su a monte Gianni arrancava ancora verso riva con l’acqua al
petto. Poi urlò qualcosa e mollata la canna si buttò a pesce
verso riva guadagnandola a nuoto con alcune vigorose bracciate. Lo
raggiungemmo e pallido di paura e di freddo ci disse come l’acqua lo
stesse sollevando e come non avesse avuto altra scelta se non quella di
buttarsi a nuoto abbandonando la canna al fiume. L’Orava, come al
mattino, scendeva ora vorticosa sotto la spinta di altri 60-70 cm. di
livello. La sera al fuoco l’episodio rinfocolò più volte la
conversazione.
2° giorno
Si annunciò con una spruzzata di pioggia che battendo sulla tenda ci
svegliò. Fuori tirava un vento freddo per cui indugiammo nei
sacco a pelo.
Poi la pioggia cessò e quando il fiume si fu abbassato andammo tutti
insieme a vedere di ritrovare la canna di Gianni. Come previsto senza
risultato.
Sulla prima bollata della mattina ci si dedicarono prima Paolo e poi
Piero. Con Alberto proseguii ancora a valle e trovammo un ottimo posto
dove la corrente scivolava lungo la leggera curva della riva opposta
creando una zona di pesca perfetta. E infatti i temoli non tardarono a
bollare. Tirava da valle un vento forte e tagliente che penetrava nelle
ossa come una lama e sull’acqua veleggiavano pochissimi insetti.
Erano ancora le eptagenea sulfurea!
Come sempre rimango affascinato da questi tremuli puntini di vita che
scendono con la corrente verso valle. Le ali dritte nell’aria, l’esile
corpo sospeso sull’acqua quasi a sottolineare l’indecisione e la paura
del grande balzo da un elemento all’altro. Un fremito d’ali, un
brevissimo volo impacciato, la ricaduta sull’acqua. Poi di nuovo,
questa volta con maggior sicurezza e finalmente l’effimera si libra
nell’aria e subito viene rapita dal vento. Altri insetti passano,
alcuni già sicuri nella loro nuova vita, altri ancora incerti finiscono
preda dei temoli.
Una grossa ombra scura si stacca dal fondo e, salendo veloce, vi si
staglia nell’acqua trasparente. Un attimo, una capriola e dove prima
stava per volare una effimera, si allarga sull’acqua una bollata sorda.
Sono nuovamente subito teso nell’euforia selvaggia della caccia ma
riesco a non lanciare subito per osservare meglio e con più calma.
Era là, dieci metri da me, leggermente a valle e saliva a
intervalli regolari a prendere l’insetto che passava. Mi decido per una
sedge che rare graffiavano l’acqua con il loro sfarfallamento. Lancio
una, due, quattro volte: niente. Tra un lancio e l’altro il temolo sale
a prendersi un altro insetto. Cambio mosca e lancio di nuovo: una
passata perfetta, la mosca scende vaporosa come una soubrette verso
valle proprio nella traiettoria giusta. Eccolo che sale! Compare dal
fondo all’improvviso, ma a pochi centimetri dalla mosca ci ripensa e si
immerge. La mosca passa indenne. Maledetto, è un bellissimo temolo e ne
vale la pena. Rilancio e come pensavo questa volta non viene neppure a
curiosare. Passa una eptagenea e subito la fa sparire. Accidenti a lui!
Poi ignora un paio di mosche di maggio che ha certamente visto. Dopo
avergli presentato diversi artificiali “logici” entro nel campo delle
scelte della disperazione e mi decido per una minuscola A4 di Devaux.
Non c’entra niente con quello che passa sull’acqua, ma a questo punto
devo sparare tutta la mia santabarbara. Il freddo alle mani rende
complicato anche il nodo. Il vento a raffiche manda a quel paese la
posa precisa. Dopo un paio di lanci sbalestrati dal vento, lanciando da
tutta altra parte, riesco a mandare la mosca dove voglio io. Si adagia,
indugia un attimo poi scende con la corrente…si avvicina…Preso! E’
venuto su deciso e la ferrata non è stata da meno: proprio mentre,
presa la mosca, stava puntando veloce verso il fondo. Ora tira di punta
di traverso alla corrente. Ora la scende veloce: devo cedere coda. Devo
cercare di rimanere calmo. Improvviso, in una esplosione di schizzi,
salta fuori dall’acqua contorcendosi nell’aria. E’ bellissimo. La canna
vibra sotto le sue puntate verso il fondo ed è allo spasimo. Gli
altri, ignari, stanno pescando lontano. Non ho più freddo. Recupero
lentamente un po’ di coda e cede. Ora è a galla e lo vedo: è proprio un
bel te… La canna mi muore improvvisa tra le mani, la coda si affloscia
inerte sull’acqua. Era proprio un bel temolo.
Adesso il freddo mi attanaglia le mani. Insisto un po’ su un temolo che
bolla tranquillo. Ci prova anche Alberto che nel frattempo mi ha
raggiunto, ma alla fine desistiamo per il freddo e andiamo a cercare un
altro posto sotto vento. Ci scaldiamo un po’ al fuoco che Gianni, al
campo, ha già acceso e proseguiamo verso monte. Le bollate ora sono
rare e poco convinte; le nuvole sembrano minacciare neve e diffondono
una pallida luce invernale. Fa un freddo boia. Alberto prende l’ultimo
temolo della giornata e rientriamo intirizziti. Ceniamo tutti dentro al
pulmino un po’ allo stretto.
3° giorno
Faceva sempre abbastanza freddo ma la pioggia della notte era cessata
per cui dopo colazione smontammo il campo e partimmo come deciso per
vedere il Vah per il quale avevamo i permessi di pesca. Ci arrivammo
nel primo pomeriggio dopo aver attraversato un paesaggio bellissimo. La
zona di pesca era ancora a valle di una diga: si vedeva benissimo il
segno lasciato dall’acqua e inoltre il fiume, più piccolo dell’Orava,
scorreva in un fondo ghiaioso un po’ troppo piatto e troppo veloce. Ma
soprattutto tirava un forte vento freddo e teso. E non avevamo voglia
di dighe….
Fu deciso allora di andare a est, verso i monti Tatra e di cercare i permessi di pesca sul posto.
Arrivammo a Lipt Hradoic verso le 17 e l’ufficio turistico era già
chiuso. Puntammo quindi decisamente verso i Tatra che si vedevano
lontani per dare almeno un’occhiata al fiume: il Bela.
La strada attraversava un vasto pascolo ai cui lati iniziavano immense
abetaie. Lontano, con le vette seminascoste dalle nuvole, si ergevano
le masse cupe dei Tatra ancora venati di neve. Più sotto la ripida
pendenza della roccia si attenuava in morbidi pendii verdeggianti di
abeti. Una veduta bellissima. Poi la strada si avvicinò al Bela e
scoprimmo così un torrente stupendo che a occhio e croce dava
l’impressione di essere anche pieno di trote. Ritornammo tutti euforici.
Montammo il campo nel crepuscolo in mezzo alla foresta di abeti e
vicino al torrente che sentivamo correre. Finalmente un ambiente come
quelli che ci eravamo immaginati. Dopo cena, al fuoco, la fisarmonica
di Paolo fece di nuovo sentire la sua voce.
4° giorno
Il sole. Impazienti di pescare e “ricaricati” ci dividemmo: Gianni, Paolo e io verso monte, gli altri a valle.
Paolo aveva già la mosca montata e gli lasciai la lunga lama dove
l’acqua si soffermava un momento, cristallina. Al primo lancio subito
una trotina guizzò veloce sulla mosca di Paolo e si rituffò rapida.
Ignorando le buone maniere scattai verso monte lasciando Gianni e Paolo
alla loro buca.
Camminai un po’ in cerca di una corrente più calma godendomi
l’ambiente. Il Bela scendeva veloce e spumeggiante nel suo largo
letto, giù dai monti che svettavano in distanza. Godere del piacere
dell’acqua limpidissima che corre fra il verde cupo delle abetaie fitte
e diritte, respirare gli odori del sottobosco umido di muschi e
di ombre: anche questo fa parte della pesca.
Con calma montai uno spinner e feci alcuni lanci sotto riva. Un paio di
trotelle guizzarono veloci e non ferrai neppure. Guadai per avvicinarmi
a un braccio secondario che, meno impetuoso, strisciava lungo una
roccia e dove l’acqua di buca si incupiva. Il primo lancio lo feci di
traverso, posando la mosca a metà buca e immediatamente dal fondo
salì irruento un salmerino che recuperai e restituii alla corrente.
Aveva una livrea stupenda, ma anche bisogno di crescere. Al secondo
lancio in cima alla buca, proprio di lato alla corrente, una fario più
grossa aggredì la mosca saltando fuori dall’acqua e tuffandoglisi
sopra. Liberai anche questa: pur essendo una bella fario non volevo
ancora iniziare il conto alla rovescia imposto dal limite delle tre
catture.
Grosse olive scendevano a valle in equilibrio sulla corrente veloce.
Risalendo ancora, lanciando intravidi una grossa sagoma che salì a
galla veloce per sparire sul fondo. Lanciai immediatamente la mosca in
zona. La sagoma riapparve rapida a curiosare e scomparve di nuovo
spaventata dalla mosca che si era messa a dragare! Eccitato recuperai
coda e mosca: era una trota intorno ai 40. Montai una Devaux 836 e
questa volta ferrai. Riconobbi solo allora la trazione del temolo. Non
era una trota, ma un temolo che abile si liberò e si perse nella
corrente. Scoprii così, e come me gli altri, che quel torrente che
avrebbe dovuto essere popolato da trote era invece pieno di bei temoli
e che le trote, in genere di misura più modesta, erano invece in netta
minoranza. (il racconto termina qui, tagliato per mancanza di spazio
nella rivista).
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