Ottobre 1990
"Sussurri e grida"
Ultimi
di settembre. La voglia di fiume e la prospettiva di qualche mese senza
pescare mi hanno guidato in questo posto stupendo per la “chiusura”.
Mentre mi attardo a montare la canna, finale ecc. ripercorrendo con
gesti consueti il rituale della “vestizione”, nel mio profondo godo di
questi istanti di aspettative, di piacere e di tensione insieme,
assaporando tutti i momenti, attesi da giorni, nei quali sto per
immergermi. E’ una sorta di eccitazione derivante anche dal piacere per
il contatto con questo ambiente che gli appuntamenti, gli impegni, il
lavoro, mi ostacolano sempre più spesso.
I miei gesti tradiscono quest’ansia che ho di buttarmi subito in pesca
tant’è che il finale mi scivola di mano rifiutandosi più volte di
entrare nell’occhiello della mosca. E’ sempre così! Nello stesso tempo,
imponendomi una flemma che non mi appartiene, deliberatamente mi
attardo nei preparativi per farmi possedere più a lungo da questa
eccitante attesa, preludio di chissà quali esperienze.
Ed eccolo il fiume. Spostato l’ultimo cespuglio che lambisce l’acqua,
lo ritrovo, sempre lo stesso, con il suo scivolare lento eppur veloce,
a seconda dei capricci del fondale e dei fili delle mille correnti che
lo percorrono e compongono.
L’acqua, trasparente e fredda come sempre, brilla e riflette i sassi
lisci del fondo, le sabbie, i piccoli vortici, le morte, gli anfratti e
le tane, le fronde protese e le radici contorte, le luci e le ombre, le
nuvole e l’azzurro infinito. E la pace.
Oggi la sua voce mi pare più vivace, allegra e gagliarda, certo per le
piogge recenti che lo hanno un po’ gonfiato. O forse lo sono io!
Nel contempo il sussurro della corrente pare come ovattato dalla nebbia
fina che ancora indugia, in strato lieve e opalino, un paio di spanne
sull’acqua rendendo i contorni lontani più incerti e sfumati.
Avvisaglie di autunno. Fra poco il sole avrà più coraggio, i cespugli
cesseranno il loro gocciolare di guazze odorose e certamente farà
ancora caldo.
Trepidante, piano, mi addentro in acqua. Una coppia di germani, da un
anfratto della riva, spicca un volo impaurito che mi fa sobbalzare a
mia volta e si allontana gracidando la sua protesta. Ne seguo il volo
teso e radente fintanto che non si tuffano nel nulla di nebbia e per un
po’ li sento allontanarsi ancora fino al silenzio. Silenzio accentuato
dal gorgogliare del vortice che la corrente mi mulinella intorno agli
stivali.
Guardo il fiume, anzi lo scruto, cercando le bollate, gli insetti, la
vita. Dalla riva opposta, un po’ a valle, un martin pescatore ha
interrotto il suo daffare e mi controlla impettito, certo fin da quando
sono apparso sulla riva. Allarmato dai germani, pare valutare il
pericolo, ma vistosi scoperto dal mio sguardo, anche lui con un
saltello si tuffa in un volo improvviso che lo nasconde fra le braccia
tese degli abeti.
Dio, com’è bello questo posto! Sembra creato per me e lo godo fin
dentro i polmoni, con l’aria pregna di nebbia che fredda mi graffia la
gola, con il freddo dell’acqua che mi avviluppa le gambe e mi gela le
mani, nelle dita intorpidite, negli occhi che mi regalano questa pace,
nella mente che se ne pasce, nell’anima che se ne purifica.
In questa solitudine, colorata dai primi rossi e gialli dell’autunno e
dai mille altri colori di questa tavolozza che mi circonda, animata
dalle luci e ombre del primo mattino, dagli odori umidi, e dai profumi
di muschi nascosti del sottobosco, dai sussurri e sciaguattii
dell’acqua, dagli impertinenti o modulati gorgheggi e nitidi richiami
che mi arrivano dal fitto del bosco, ritrovo me stesso e barlumi di
pura felicità.
Il grido sconosciuto di chissà quale uccello rivela la sua vicinanza riportandomi alla pesca.
Osservato sotto questa ottica il fiume pare adesso addormentato.
L’acqua scorre ancora, sempre sciaguatta sui sassi, si rompe e si
ricompone in onde, in riflessi, colori ed ombre, ma ancora non
vedo insetti né tanto meno bollate. Tuttavia il fondo che incerto
degrada nel verde cupo sotto la riva opposta, corrosa da secolari
correnti, è sicuro rifugio di temoli e trote. Lo so. Li immagino che
tengono la corrente pinneggiando pigri e sicuri con l’occhio attento su
quanto corre loro incontro in una perenne ricerca di cibo. Anche loro
fanno parte del fiume, anzi ne sono l’essenza: pur non vedendoli ne
avverto la muta presenza.
Qualche lancio, e la mosca corre veloce, ora ondeggiando, ora scivolando via lieve sul filo della corrente.
Assorto e teso nella caccia sono percorso da misteriose energie che mi
stimolano corpo e anima. Dallo sguardo attento che segue la mosca, alle
braccia, alla mano che manovra la canna o guida la coda di topo
imprimendole quelle sollecitazioni che ogni lancio, diverso dal
precedente, reclama. Al respiro che qui mi rigenera da tensioni e
nevrosi che in questo paradiso si dissolvono portandomi in un’altra
dimensione.
Tutto pare attesa. Improvvisa, come il dissolversi della nebbia, una
sagoma scura e veloce balena sotto la mosca e sparisce sul fondo
lasciandomi il cuore in gola. Calma, ci siamo. Cambio mosca e questa
volta è preso. Al primo passaggio è venuto su veloce come prima,
rompendo l’acqua in una esplosione di gocce e di luce, con l’irruenza
di un giovane, la sicurezza del forte e la fiducia dell’ignaro. L’ho
allamato ritardando appena una ferrata non troppo violenta e ora lo
sento vibrare. E io con lui. La coda tesa piega la canna e si perde
obliqua nella complicità della corrente che il temolo esperto taglia di
traverso per sfruttarne la forza. Trattenuto dall’esile filo lo sento
tuffarsi ripetutamente verso il fondo con picchiate caparbie e possenti
e devo cedergli coda.
Ora lo recupero piano e pare cedermi inerme, ma improvviso, piegandosi
di lato, riprende il largo nella corrente, suo incontrastato dominio, e
ancora devo cedere io. Eccolo il momento che pregustavo! Ora che lo
vivo mi pare tutto confuso, travolgente, irruento, troppo veloce che
presto ne finirà. Istanti di eccitazione e trepidazione in una contesa
che avrà un solo vincitore: lo sappiamo entrambi.
La contesa dura già da un po’, la trazione è forte, ma posso solo affidarmi all’elasticità della canna e al dio del fiume.
In uno squarcio di spruzzi e schizzi il temolo salta dall’acqua, alto
nell’aria, molto in alto. Vola e lo ammiro enorme e possente, con la
sua grande pinna spiegata come una vela, mentre si divincola e contorce
per liberarsi dal ferro che lo tiene. Lanciando lampi di oro e
brillanti di luce ricade pesante schiaffeggiando il fiume che ne
riesplode, si apre, vi si richiude e lo accoglie con rumor di sassata.
La canna mi muore in mano, la coda si svuota e si spenge, la tensione
svanisce e mentre il mio bel temolo, vittorioso, con il fondo
riconquista la vita, il fiume torna pace e silenzio, testimone
indifferente alla mia eccitazione che va ricomponendosi ammirata e
incredula. La corrente continua a sussurrare la sua complicità.
Un vocio sguaiato mi sottrae silenzio e solitudine. A un centinaio di
metri a monte un gruppo di sette pescatori, sette, è entrato in acqua
con la foga di una mandria assetata che mugghiando e scalpitando
sconvolge il fiume. Pigiati in un grappolo assurdo li osservo smanettar
canne in un grovigliar di code rosse, verdi, gialle. Vedendo una coda
volteggiare lontana mi è sempre parsa una sorta di leggiadro ricamo, di
morbido disegno, di nota armoniosa sospesa in aria; adesso queste mi
pare che la graffino e schiaffeggino l’acqua tanto sono disordinate,
sguaiate e becere.
“Lancia lì – tira là - la ghà bolato! – Tonj, ven chj – ma va in
mona – zio poi!....” Un guazzabuglio di berci, un clangore di
sghignazzate, di richiami, esclamazioni e bestemmie adesso profana il
bel paradiso mentre dentro mi gonfiano incredulità, rabbia e impotenza.
E’ una sarabanda di sguaiatezze, una carnevalata eccentrica di cappelli
fluorescenti o da cowboy, camicie vermiglie, fazzolettoni multicolori
alla John Wajne, secondo i dettami dell’ultima moda in fatto di mosca,
gilet mimetici tipo marines e di questi lo sconclusionato plotone ha
l’irruenza profana e devastatrice. E’ un immane casino.
Uno di loro allama un grosso pesce e scoppia il finimondo. Le urla
diventano bolgia da stadio. “L’ho ciapà! – tira, tira – atento, dio qui
– sé un temolo- madona là – no, sé nà trota - sé bea, zio
poi!- che mosca ti ghà - stà atento, fa pian!...”
Attaccato al pesce che pare tirarlo come a rimorchio il fortunato del
gruppo discende di per il fiume, verso di me che guardo attonito,
tirandosi dietro a sua volta la curiosità e cupidigia della turbolenta
marmaglia. Questa, sciaguattando nell’acqua bassa sconvolge quel bel
sottoriva dove poc’anzi avevo percepito un certo movimento e che mi
ripromettevo, assaporandone l’attesa, di provare più tardi con qualche
lancio nell’ombra sotto le frasche protese.
Il gruppo è sempre più incombente, mi è quasi addosso, devo smettere di
pescare e resto immobile, muto. Tutti tifano per il compare urlandogli
consigli, berciando strategie, pronti con voraci guadini sguazzando,
annaspando, saltellando qua e là in acqua dietro la bella fario
impazzita. Uno di costoro, canna sulla sinistra, videocamera sulla
spalla destra a guisa di baule, in equilibrio precario, correndo in
acqua, complice segue e riprende lo scempio per il trastullo di future
veglie con gli amici. Già li immagino, ebbri di vino, a raccontar di
donne, di mosche, di pesci e …di pesca.
Sotto ai miei occhi, a pochi passi da me, si consuma l’inevitabile. La
trota, stremata finisce irretita in un guadino e per un attimo mi è
parso che i nostri occhi si siano incontrati in uno sguardo di
sbigottimento, paura, pietà e impotenza. Tutto il fiume ne è spossato e
si è ammutolito. Non percepisco più i mormorii dei vortici, i
cinguettii, il sussurrare lieve delle foglie un po’ rinsecchite delle
vetrici. I pesci come scomparsi. Solo becero baccano.
Un tonfo sordo nel sottoriva di fronte a me, alla portata della mia
mosca, riaccende il vociare e fa scattare in contemporanea tre code.
Una grandinata di mosche si abbatte infierendo anche su quell’ultimo
specchio d’acqua. Ancora frastornato subisco il clamore e avido di
silenzio abbozzo una vibrata protesta.
Stanchi di tutto e di niente, così come sono venuti i magnifici sette
si allontanano sghignazzando complimentandosi della cattura, manate
sulle spalle, sempre sconvolgendo l’aria, l’acqua e l’anima mia,
commentandosi addosso l’un l’altro, avviandosi in cerca di nuovi
turpiloqui e paradisi da profanare. Pian piano le voci e i
clamori si sfumano dietro l’ansa in un nuovo silenzio.
Di nuovo sono solo con il fiume, nella pace animata da sussurri di
acque cristalline e da grida di uccelli nascosti. I temoli hanno
ripreso piano a bollare i loro ritmici merletti, ma il fiume non mi
pare più lo stesso.
O forse non lo sono più io.